Il Pesce Scontato: perché il problema più grande in azienda è quello di cui nessuno parla più

“Tutti devono parlare di Gaza”. L'ho letto su Instagram oggi. Sacrosanto, penso. Anche se non amo affatto gli imperativi. Poi però mi chiedo come dovrebbero parlarne tutti. E poi mi chiedo anche il perché. Non perché dovremmo parlarne, ma perché dovrebbero parlarne tutti.

Tutti dovrebbero parlare anche di quanto è tossico il maschilismo in questo paese. In questi giorni ho intercettato sui social network un "caso" emblematico. La fisica e divulgatrice Gabriella Greison è stata invitata da un'università siciliana a tenere un discorso ispirazionale a dei laureati in una bella cerimonia che si è tenuta a Taormina. La ricercatrice appare sul palco con un vestito da sera rosso e scollato: il popolo del web insorge contro di lei con commenti retrivi, maschilisti, degni di altre epoche, inaccettabili. Greison ha risposto pubblicamente a tanti, se non tutti i commenti alimentando ulteriori indicibili commenti. Vedere quanto accade, vedere come si comportano le persone mi fa arrabbiare molto. Credo in un mondo in cui l'umanità evolva, migliori. Mi scontro con un mondo in cui molte persone mi sembrano se non involute ferme a un secolo fa.

Nel mio ambito di ricerca, il mondo delle organizzazioni, questo è manifesto e, purtroppo, ne raccolgo costantemente evidenze. Come spesso racconto, la prima cosa che faccio quando entro in un'organizzazione per fare consulenza o formazione è l'esercizio dello "Stinky Fish". Si tratta di una micro struttura che in un quarto d'ora mette le persone che partecipano nella condizione di esprimere quell'elemento o quegli elementi fastidiosi o dolorosi o limitanti che arredano la loro esperienza lavorativa quotidiana. Ormai ho eseguito l'attività più di un centinaio di volte e ciò che mi sorprende ad ogni nuova iterazione è che, indipendentemente dal tipo o dalla dimensione di azienda, dalle persone ingaggiate, dal mercato di riferimento, i cartellini che si stratificano sulle pareti siano sempre, più o meno, assimilabili.

In queste ultime settimane ho proposto l'attività cinque volte e il risultato, il raccolto di "pesci puzzolenti" è stato allineato ai miei standard. Pensandoci più attentamente, ho notato che in queste settimane è scomparso uno dei pesci più fetidi e disgustosi. Stupito, ne ho chieste le ragioni a un paio di gruppi: “e il maschilismo? qui siete così fortunate e fortunati da non averne?” A questo giro, la risposta mi è arrivata come uno schiaffo in faccia da M., in azienda da trentuno anni: “non lo abbiamo detto perché quello è scontato, non serve nemmeno dirlo”. SBAM.

Apprendo così che nella azienda S., classificabile come grande azienda, tutte le persone inquadrate con ruoli specialistici, gestionali o, addirittura, direzionali sono di sesso maschile. I livelli delle retribuzioni seguono ovviamente l'inquadramento. La rabbia sale. Il mio essere un attivista organizzativo è messo alla prova: voglio cambiare questo modo di fare, pensare, essere. I lavoratori e le lavoratrici sono spesso al limite della sopportazione. Le nostre imprese, nel contesto attuale, non possono più permettersi di non essere competitive e attrattive restando ancorate ad un passato ormai molto lontano.

Una delle sfide di cui mi voglio fare carico per i prossimi mesi è quella di andare a sentire l'odore del pesce anche nelle stanze dei "piani alti". Inizio a pensare che ci sia un forte scollamento fra il percepito delle persone che lavorano e quello dei manager e degli imprenditori. Penso anche che a entrambi i livelli però ci sia molto scontento. Come se si parlassero lingue differenti e non ci si ascoltasse.

Le parole "ascolto" e "attenzione" mi riportano al punto iniziale. Perché tutti dovremmo parlare di maschilismo o di Gaza o di che cosa significhi per noi l'intelligenza artificiale generativa o le cosiddette "tariffe" di Trump?

Agire per essere persone, cittadini e lavoratori informati e consapevoli ci permette di sapere qual è lo spazio nel quale possiamo creare prosperità per noi e per chi fa parte del nostro mondo, ci permette di sapere quali sono le battaglie per le quali vale la pena combattere. Certo è faticoso, spossante. L'alternativa è terrificante, però. L'alternativa è disconnetterci dai nostri valori, ignorare le nostre attitudini, spegnere la nostra capacità di svilupparci come persone e come comunità.

Come posso attivare la mia comunità sui temi che sento in questo momento più potenti, magari sfruttando le potenzialità che ci arrivano dalle nuove tecnologie?

La domanda, quindi, diventa azione. Diventa strategia. La rabbia, da sola, è un motore che gira a vuoto, ha bisogno di una direzione. La direzione, per me, non può che partire dall'andare a fondo, dal voler capire veramente e profondamente lo scollamento che percepisco.

Il mio dilemma è sempre lo stesso. La comunità che voglio attivare, quella dei lavoratori e delle lavoratrici al limite della sopportazione, non è quasi mai quella che mi commissiona un lavoro. I miei clienti sono i manager, gli imprenditori. Quelli che siedono ai "piani alti", dove l'aria è più rarefatta e l'odore del pesce, forse, non arriva. O, come credo, si sentono odori di altri pesci. Come si parla a entrambi? Come si tiene insieme la frustrazione di chi subisce con la necessità di chi deve decidere?

Forse la chiave è proprio questa: imparare a essere un traduttore. Un interprete tra mondi che non si parlano più. E per farlo, bisogna trovare un linguaggio comune. Ed ecco che parole come ESG (Environmental, Social, and Governance), che fino a ieri mi sembravano solo acronimi per report di sostenibilità, possono diventare una leva inaspettata. Implementare procedure di ascolto non è più solo "fare la cosa giusta", ma un intervento misurabile sulla G di Governance. Lavorare per superare gli stereotipi non è più un'utopia da attivisti, ma un'azione concreta sulla S di Social, con un impatto diretto sulla capacità dell'azienda di attrarre talenti e di raccontare una storia di valore autentica. Questo è un linguaggio che anche i piani alti possono comprendere.

La mia prossima sfida metodologica nasce da qui. Non mi basta più raccogliere i pesci puzzolenti dei team. Ora voglio andare a sentire l’odore che percepiscono i manager. Voglio intervistarli, chiedere a loro qual è il loro “stinky fish”. Voglio mappare le loro paure, le loro frustrazioni, i loro ostacoli.

Immagino già il momento più potente: un workshop, una stanza, due lavagne. Su una, i pesci dei lavoratori. Sull’altra, i pesci dei manager. Lì, in quel divario, in quello spazio vuoto tra le due percezioni, si nasconde la verità. Lì emerge il “pesce scontato”, quello che per alcuni è invisibile e per altri è l’aria stessa che respirano. Quello è il momento dello specchio. Il punto di non ritorno da cui iniziare a costruire un dialogo sincero.

E la tecnologia? Sarebbe facile pensare a un'app, a una piattaforma di feedback anonimo. Ma ho imparato a diffidare delle soluzioni facili. La tecnologia, troppo spesso, non fa che riflettere e amplificare i bias di chi la progetta e la usa. Credo di più in un altro tipo di attivismo: formare le persone a un umanesimo digitale. Insegnare a usare gli strumenti che già abbiamo: le email, le chat Teams e le videochiamate con più attenzione, più inclusività, più consapevolezza. Perché nessun software potrà mai sostituire un ascolto vero.

Non si tratta di puntare il dito, ma di accendere una luce. Una luce che permetta a tutti, finalmente, di vedere lo stesso pesce. E di decidere, insieme, cosa farne.

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